Ricordare Pasolini, a 50 anni dalla morte
Il 2 novembre 2025 è il 50° anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini. È difficile circoscrivere la sua figura e l’importanza che ebbe per la cultura italiana del Novecento. Come intellettuale pubblico fu un lucido e critico osservatore della modernità: sono celebri le sue esternazioni sul consumismo, sui mass media, sulla morale, sulla politica e su vari aspetti della società. Qui ricorderemo Pasolini in due ambiti in cui diede un contributo originale e fondamentale: come poeta e come regista cinematografico.
Pasolini poeta
Sulla morte di Pasolini si è molto scritto e detto. Quello che però è rimasto alla cultura italiana è stata l’eredita di un grande intellettuale, polemista, scrittore e soprattutto un poeta. «Abbiamo perso prima di tutto un poeta», disse Alberto Moravia nell’elogio che tenne il giorno del funerale di Pasolini. Se ne andava infatti una delle voci più originali della poesia italiana del Novecento. Come scrive Gian Maria Annovi nel suo saggio dedicato a Lo sperimentalismo sull’Età moderna di Federico Motta Editore,
Alla purezza Pasolini contrappone l’impurità, la libertà stilistica, ossia l’abbassamento della poesia a livello della prosa, il recupero del dialetto e delle esperienze prenovecentesche legate a una ricostruita linea realista della poesia italiana, una contaminazione di generi e stili che permetta di adattarsi alle istanze dell’impegno politico e sociale.
Pasolini scrisse importanti raccolte di versi, come Le ceneri di Gramsci (1957), Poesia in forma di rosa (1964) e Trasumanar e organizzar (1971). Ma fu, appunto, attento anche alla poesia dialettale e contribuì a fondare l'”Academiuta di lenga furlana”, un istituto di lingua e poesia in friulano. In dialetto erano scritti anche i componimenti della sua prima raccolta, Poesie a Casarsa, del 1942. Nel 1954 pubblicò anche una seconda raccolta di versi in friulano, La meglio gioventù. Ai dialetti dedicò anche alcuni scritti critici, tra cui Sulla poesia dialettale (1947), un’analisi della situazione dei dialetti nell’Ottocento. Per Pasolini infatti la letteratura dialettale ha una sua forza e una sua fisicità, pone il lettore davanti a un oggetto reale, a un fatto compiuto. Nel dialetto ritrova una umiltà e una vitalità primigenia, che sta via via scomparendo. La stessa vitalità che ritrovò anche nella vita delle borgate, al centro dei suoi racconti e di alcuni suoi film.
Il cinema di Pasolini
Per molti il cinema è stato una porta d’accesso diretta per scoprire Pasolini, e rivedere uno dei suoi film può essere un omaggio per ricordare i 50 anni dalla sua morte. Giacomo Manzoli nel saggio Pasolini e il cinema di poesia, sempre nell’Età moderna di Federico Motta Editore, così descrive il cinema del grande poeta:
Pasolini è sostanzialmente estraneo al mondo del cinema, ma il fatto di non conoscerne le convenzioni cristallizzate lo porta a elaborare uno stile particolarissimo, che prende le mosse da una comune matrice neorealista per poi superarla in una sorta di manierismo composito, nel quale confluiscono ardite soluzioni linguistiche e squisite citazioni pittoriche, specie dagli autori del Cinquecento italiano, studiato alla scuola del critico d’arte Roberto Longhi o musicali.
Dopo avere lavorato come sceneggiatore in alcuni film, Pasolini esordì come regista. Lo fece tardi, verso i 40 anni, e lo fece come risposta a una sua esigenza di un nuovo mezzo con cui esprimersi. Pasolini ricorse al cinema per raccontare il sottoproletariato urbano, e lo fece anche attraverso attori non protagonisti. Il caso più famoso è Ninetto Davoli, un giovane di borgata che Pasolini scoprì e che avviò alla carriera di attore. Nei suoi film, però, si rivolse anche ad attori navigati: come non ricordare Totò in Uccellacci e uccellini o di Anna Magnani di Mamma Roma?
Ma il cinema di Pasolini non si limitava a descrivere la vita del sottoproletariato: celebri sono i suoi film sulle tragedie greche, come Edipo Re (1967) e Medea (1970), o quelli su classici della letteratura, come Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il Fiore delle Mille e una notte (1974). Al Nuovo Testamento è invece ispirato Il Vangelo secondo Matteo (1963), un film fu accolto da accese polemiche. L’«Osservatore Romano» all’epoca lo definì «fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo». In seguito l’organo di stampa della Santa Sede avrebbe cambiato opinione, rivalutando l’opera in anni recenti.


